Lo
scopo di questo breve scritto è quello
di fornire un parere che sia quanto più
semplice possibile, lontano da fastidiose ed a volte incomprensibili
terminologie giuridiche, sulla nota vicenda dei marò italiani trattenuti in India in attesa di un processo. È anzitutto fondamentale una
preliminare precisazione: il punto focale della questione, spesso travisato da
media ed esponenti politici desiderosi di cavalcare il malcontento popolare
puntando più alla pancia
che al cervello, è relativo
alla differenza tra l’accertamento
dei fatti - e cioè il vero
e proprio processo - e chi il processo lo dovrà celebrare, ovvero quella che viene tecnicamente definita la
“giurisdizione”. Nessuno dunque intende per
partito preso ritenere Latorre e Girone colpevoli di qualcosa, tuttavia è indubitabile che due cittadini
indiani siano morti a causa di alcuni colpi d’arma da fuoco esplosi dalla nave ove i due marò erano imbarcati e che questi ultimi siano i principali
indiziati per la morte dei primi. È
quindi necessario, nessuno potrà
contraddirmi, celebrare un processo per accertare questi fatti. Ciò su cui si dibatte, da anni
ormai, è il luogo ove
questo processo debba essere celebrato. Questo dunque è quello che dobbiamo capire. La posizione da escludere
immediatamente è quella di
chi, sostenendo che i fatti siano avvenuti all’interno di una nave battente bandiera italiana, sostiene che
il processo debba essere celebrato solo ed esclusivamente in Italia. Questa
tesi non è nemmeno degna
di essere presa in considerazione poiché
il relativo articolo di legge è
applicabile esclusivamente se i fatti avvengono all’interno del naviglio italiano
senza conseguenze all’esterno
dello stesso, ma qui la situazione è
diversa ed è così riassumibile: due militari
italiani, dall’interno di
una nave italiana, aprono il fuoco (fatto da accertare attraverso il processo)
contro una nave indiana uccidendo due cittadini indiani, il tutto in acque
internazionali, ma all’interno
della zona d’influenza
economica esclusiva dell’India.
Solitamente le situazioni soggettive relative ai militari stranieri in tempo di
pace sono regolate da accordi bi o plurilaterali tra nazioni, come ad esempio
quello in vigore tra Italia e U.S.A., che però alla data dei fatti di cui stiamo trattando, tra Italia ed
India, non esisteva. Ecco che dobbiamo ricercare altrove la soluzione del
problema. Volendo escludere che il diritto penale indiano possa esercitarsi,
posizione dubbia, all’interno
della zona d’influenza
economica esclusiva indiana, dobbiamo interrogarci su quali possano essere gli
elementi di collegamento all’una
- quella indiana - o all’altra
- quella italiana - giurisdizione. L’India,
oltre al collegamento territoriale (z.i.e.e.), sostiene che spetti a loro il
diritto di processare i militari italiani poiché essi sono accusati, in linea di massima poiché il capo d’imputazione è ancora in corso di
formulazione, di aver ucciso due cittadini indiani aprendo il fuoco contro una
nave battente bandiera indiana. L’Italia
può solo sostenere che il
processo debba essere celebrato qui poiché sono coinvolti dei militari italiani impegnati in una
missione internazionale, ma questa posizione appare decisamente debole poiché non supportata dalla normativa
né internazionale né locale. Altrettanto
impraticabile risulterebbe essere la possibilità di affidare la controversia ad un tribunale internazionale,
poiché uno solo dei due
paesi ha sottoscritto il relativo trattato. In linea teorica potrebbe essere
possibile celebrare un doppio processo, sia qui in Italia che lì in India, ma ciò sarebbe evidentemente del
tutto inutile. Appare quindi fondata, a parere di chi scrive, la richiesta dell’India di esercitare la
giurisdizione sul caso. Quando verranno superate le lungaggini del sistema
giudiziario indiano, da che pulpito viene la predica, se i nostri militari
verranno condannati potranno richiedere di scontare la pena in Italia e ciò in virtù di un trattato in vigore tra i due paesi.
Giovanni
Mennella
@GioMenny